La trama del vivere insieme (questo vale per qualsiasi gruppo o comunità) risulta scandita da due spinte radicali, intimamente connesse ma diametralmente opposte: la spinta ad appartenere, da un lato, e ad essere indipendenti dall’altro. Per tutta l’esistenza si cercherà, a tanti livelli, di comporre in sinergie queste potenzialità che tendono, come i cavalli di Platone, a correre in direzioni opposte. In base alla storia di ogni individuo ed ai periodi della sua esistenza viene avvertita come più pressante la paura di essere soffocati dagli altri o quella di assumersi la responsabilità della propria unicità. Si tratta, in altre parole, del modo in cui viene riempito lo spazio tra se stessi e l’altro, quel luogo concreto in cui si declina e si vive ogni relazione, luogo che Buber chiama “traità” e Goodman “confine di contatto”. Si cammina alla ricerca di qualche regola che presieda ed organizzi questo gioco mai svelato del vivere insieme e sembra che la qualità di questo non dipenda solo dalla disponibilità o dall’apertura all’altro (atteggiamenti di affetto sincero e di buona volontà possono, infatti, produrre anche paternalismo, fraintendimenti ed incomprensioni), ma richiede anche modi di pensare ben precisi. Un elemento costitutivo della competenza relazionale è il pensiero non-egocentrico, e cioè un pensiero capace di andare al di là della propria stessa prospettiva. In altre parole: il compito arduo di coniugare in modo armonico e significativo la spinta all’autonomia con quella all’appartenenza viene facilitato od ostacolato a seconda dei pensieri che si hanno sul vivere insieme. In tal senso, si può sostenere che la prima regola del gioco è quella di conoscere le regole stesse e di confrontarsi su di esse.

Eccone alcune possibili:

Prima regola: anche nelle relazioni in cui si condividono determinati valori, in tempo di non emergenza si deve dare voce alla soggettività ed al suo personalissimo modo di intendere e di vivere tali valori (stabiliti).
Seconda regola: riconoscere la diversità come una necessità della relazione. Si tratta di costruire... uno spazio in cui ognuno comprende l’identico messaggio nella propria lingua.
Terza regola: l’impegno a riscrivere la grammatica della relazione. Dobbiamo imboccare oggi la strada che porta alla “cultura della relazione”.
Possiamo inoltre tenere a mente alcune frasi che possono formare una base solida su cui poggiare il nostro pensiero, come: Non esiste un “altro” difficile: esiste una relazione nella quale “io” ho difficoltà. Non sono gli altri a farmi perdere la pazienza: essi fanno solo emergere i miei limiti. Ogni identità si costruisce da una relazione e si definisce di fronte a qualcuno. Ecco il cuore della questione: a relazione si invera e si rigenera quando ogni individuo lascia progressivamente i calzari del potere e della seduzione, della dipendenza e dell’accusa, per entrare in una terra a lui sconosciuta: la “terra di nessuno” dove ci si riscopre – finalmente ed unicamente compagni di viaggio. Queste brevi note esprimono, in maniera comprensibile, da un lato l’essenza di ciò che mi resta dell’esperienza del “Best Year Yet”, con Voi condivisa lo scorso anno, dall’altro i punti sui quali il nostro gruppo credo debba ulteriormente interrogarsi e, spero, continuare a costruire la propria storia.
Ognuno di noi ha colto dal percorso compiuto quanto era disposto e pronto a fare. Ciò che a me è rimasto, può, ulteriormente rispetto a quanto sopra espresso, essere così sintetizzato: Tempo e relazione sono uniti da un medesimo destino si salvano o si perdono assieme. Se l’altro non c’è più anche il tempo perde di senso. Solo la relazione trasforma il tempo da kronos (tempo cronologico) a skopos, e da questo a kairos (il tempo della grazia). Questo dono è concesso solo a chi è disposto a “perder tempo” nella relazione per non perdere il tempo della relazione.